"Sono tre le cose memorabili della mia vita. No, anche di più". Francesca Benedetti, signora del palcoscenico italiano, musa per tanti grandi da Testori a Ronconi, 90 primavere il 18 novembre prossimo, è proprio come il suo teatro: generosa, sanguigna, piena di passione, divertente, senza reticenze. "Che bello essere vecchi - dice all'ANSA -. Intanto si può dire quella parola senza problemi e poi ci si libera da tante responsabilità".
Siamo alla vigilia di quello che lei annuncia - ma chissà - come il suo saluto al palcoscenico: la messa in scena dell'Erodiade di Giovanni Testori (1923-1993), autore cui è stata legatissima per anni e che in questo testo ribaltò la storia originale del Mito, con Erodiade stessa, e non più sua figlia Salomè, che su un trono rosso sangue ama e desidera la testa del Battista. Saranno due serate, il 25 e 26 marzo al Vascello di Roma, dirette da Marco Carniti, regista con il quale ha già affrontato un Back to Beckett e l'omaggio a Pasolini de L'indecenza e la forma di Giuseppe Manfridi. "L'amore per il teatro? In realtà dovevo fare la scrittrice, ero particolarmente dotata - racconta Benedetti -. Venivo da una famiglia borghese nella mia adorata Urbino. Non conoscevo nulla della vita. Mia madre non sapeva chi fossero i gay, io, a sedici anni, neanche come nascessero i bambini. Ma volevo sapere cosa succedeva 'fuori', nel mondo. Andai a Roma, mi iscrissi a medicina per tre anni. Studiavo, facevo qualche dissezione. Poi però all'uscita vedevo i ragazzi dell'Accademia, in tuta, così liberi. Provai gli esami e mi presero subito. Per compagno di corso ho avuto Gian Maria Volonté. Era bellissimo. Mai avuto una storia con lui, questo mi punge da morire", sorride.
Poi si torna alla sua lunga carriera, costellata di titoli, registi - da Luca Ronconi a Giancarlo Sepe, Marco Bellocchio, Andrea De Rosa - e di premi, come il Flaiano alla carriera nel 2024. "Tre sono stati i momenti memorabili - ricorda -. Il temporale di Strindberg che feci con Giorgio Strehler nel 1980: lui era il genio assoluto trasformato in umanità. Poi la creazione delle Orestiadi di Gibellina con Emilio Isgrò e Ludovico Corrao" nel 1981, quando i tre portarono il teatro al Baglio Di Stefano e al cretto di Burri, sui luoghi del terremoto del Belice. "Ma Testori è il più importante di tutti - prosegue -. È stato un avvenimento quando mettemmo in scena la Trilogia degli Scarrozzanti, con l'Ambleto, il Macbetto, che scrisse per me, e l'Edipus da Sofocle. Quei titoli hanno segnato dei limiti nuovi e un nuovo percorso del teatro italiano. Testori è stato il grande salto della drammaturgia e del modo di guardare il teatro. Una cosa epocale di cui pochi riconoscono l'enorme valore. Nei suoi testi - spiega - lui parla sempre di carne e sangue. Ecco, noi due siamo stati legati da questo. Era rigidamente omosessuale, ma fra noi c'era una sorta di incantevole intesa, che andava al di là della specifica condizione di uomo e donna. Nella sua casa ci sono le nostre foto, davanti ai suoi quadri, tremendi e pietosi, come era lui. E come è questa Erodiade che porto in scena. Con Carniti abbiamo scelto di inserire anche brani di precedenti stesure del Mito eterno scritte in dialetto" per sottolineare la "resa totale al tema così importante dell'eros, che si confronta con l'idea del sublime e di Dio, della verità e della finzione. È l'anima nera di questa Erodiade che mi piace, ma soprattutto la sessualità".
Ma davvero questo spettacolo sarà il suo saluto alle scene? "A maggio andrò a Borgio Verezzi, dove mi daranno un premio. Poi, la verità è che sono stanca. Certo - sorride illuminandosi - se mi propongono qualcosa di molto efferato, violento, bello... Perché io sono così, le mammole non le voglio".
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