(di Nicola Pirrone)
Dopo la recente Trilogia d'Autunno
dedicata a Monteverdi e Purcell, ma anche il Tamerlano di
Vivaldi dell'anno precedente, le proposte di opera barocca
proseguono con sempre maggiore successo al Teatro Alighieri di
Ravenna: è il caso del Giulio Cesare di Haendel messo in scena
nel weekend appena passato e accolto da consensi unanimi in una
sala sempre esaurita.
Un fenomeno ormai contagioso, quello del barocco: si pensi
all'Orontea di Antonio Cesti data alla Scala lo scorso settembre
o allo stesso Vivaldi divenuto filo conduttore delle stagioni
d'opera ferraresi degli ultimi anni. Senza dimenticare che
quella ravennate è una coproduzione allargata che nelle prossime
settimane verrà presentata ai pubblici di Modena, Piacenza,
Reggio Emilia, Lucca e Bolzano.
Spettacolo sontuoso ed elegante realizzato da Chiara Muti,
regista, e Alessandro Camera, scenografo, anche se debitore a
quel grande maestro del barocco che da almeno 50 anni è Pier
Luigi Pizzi e, nelle scene, all'argentino Hugo De Ana i cui
spettacoli sono caratterizzati spesso da parti di corpo umano.
Il palcoscenico dell'Alighieri è stato dominato, infatti, da
un'enorme testa (quella mozzata di Pompeo?) che si scomponeva
moltiplicando attraverso un gioco di specchi parti dell'azione.
E poi come non notare il mare dichiaratamente finto (tecnici a
vista), fatto di teli e di luci, che a tanti ha ricordato quelli
evocati da Federico Fellini nei suoi capolavori. E ancora, la
maschera/testa d'asino omaggio allo shakespeariano Sogno di una
notte di mezza estate. Rappresentazione assai gradevole, "dalla
dimensione simbolico evocativa", secondo la stessa regista.
La parte musicale ha avuto in Ottavio Dantone e nella sua
Accademia Bizantina la punta d'eccellenza dello spettacolo:
impossibile non citare almeno Gregorio Carraro e Daniele
Bolzonella straordinari e applauditissimi flautino e corno, e
naturalmente la guida vivace, a tratti solare, dello stesso
Dantone. Per il cast, Haendel ha richiesto ben otto cantanti,
quattro dei quali controtenori, una tessitura che negli ultimi
anni sembra avere soppiantato quella contraltile che a sua volta
aveva sostituita, ma per ragioni più ovvie, quella dei castrati.
Raffaele Pe, nel ruolo del titolo, ha faticato un po' all'inizio
ma poi ha delineato un Giulio Cesare di buona fattura. Svettante
anche il Sesto di Federico Fiorio, e il Tolomeo, fratello e
rivale di Cleopatra per il trono d'Egitto, di Filippo Mineccia.
Ma le voci che più di tutte hanno raccolto consensi sono
state quelle "naturali" del soprano Marie Lys (straordinaria
Cleopatra, anche scenicamente, sua l'aria più celebre
dell'opera, Piangerò la sorte mia) e del basso Davide
Giangregorio magnifico Achilla cui Chiara Muti ha chiesto una
recitazione a tratti un tantino spinta nei fastidiosi e
insistenti corteggiamenti a Cornelia, un'altrettanto
straordinaria Delphine Galou.
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