Un solo ingrediente per un piatto "unico": è la sfida raccolta da Matteo Taccini, un giovane chef classe '92, con grandi esperienze internazionali di prestigio, prima fra tutte il Noma di Copenaghen ("il foraging tutte le mattine nel verde della città alla ricerca di erbe e fiori per i bouquet che componevano l'antipasto da annusare è stata una scuola di vita prima che di cucina"). Sta realizzando un sogno con il suo amico di sempre, chef anche lui, Luigi Senese che all'Imago dell'hotel Hassler si è fatto largo. Insieme hanno aperto Uma, un ristorante diverso dove sembra di essere in una grande capitale europea della gastronomia come Barcellona e non a Roma per il modo informale di intendere una cucina di ricerca, contemporanea, all'avanguardia, con costi davvero accessibili.
La cucina freestyle a vista, un piacere guardarla per la cura della composizione dei piatti, e idee nuove sono al cuore di un indirizzo, a Garbatella che si sta facendo notare, uno dei tanti posti che stanno facendo di Roma una vera capitale gastronomica spesso grazie a talenti di ritorno. Parliamo di Uma come nuova apertura ma anche come tendenza food, quella di sperimentare modi diversi di cucinare ma al netto di semplicità di ingredienti, provenienti da piccole realtà del territorio facendo rete tra giovani che si impegnano localmente tra agricoltori, allevatori e appunto chef. Un trend che ha portato Matteo Taccini e Luigi Senese a puntare nel menù su piatti mono realizzati cioè con un solo ingrediente grazie al fatto che è di prima qualità innanzitutto, corto in chilometri e cucinato con tecniche poco praticate ma che esaltano, danno corpo, aggiungono ricchezza.
Si lavora di sottrazione, in controtendenza con i piatti di moda che lo fanno strano e anche un po' fumoso a volta. Gli esempi delle verticali di ingredienti sono di stagione: il carciofo, ora il pomodoro. E poi latte di bufala (da Bufalì di Ardea) che nello stesso piatto è l'unico ingrediente per comporre divagazioni come kefir, panna bruciata, ricotta, stracciatella, siero, latte ossidato, chips, uno spettacolo per gli occhi oltre che per il gusto.
L'unico, inteso latinamente come uno solo, è uno dei mantra di Uma.
L'altro è la fermentazione, una passione di Taccini, che ha una stanza apposita dove il garum degli antichi romani è lì a trasformare in assenza di ossigeno vari ingredienti, un laboratorio dove si coccola il koji, uno dei pilastri della cucina di Uma, cioè il fungo responsabile delle fermentazioni di soia, cereali e patate: sentir parlare chef Matteo di questa muffa è una esperienza in cui chimica (a lui la parola non piace ma ci sta tutta) e gusto s'incontrano. E' il segreto dietro al piatto “Cacio e Pepe”, la pasta simbolo di romanità, tra virgolette però perchè è una pasta cacio e pepe senza il cacio, tutta da provare. Tra i dolci c'è la “Carbonara” (sempre fra virgolette): un piatto che viene completato al tavolo, con spaghetti di cioccolato 80%, spuma di zabaione (che fa la parte dell'uovo), ‘guanciale’ realizzato con la frolla bicolore al cacao, ‘pecorino’ fatto con il macambo (cacao albino) e gruè di cacao a richiamare il pepe.
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