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Venti anni fa un camion cisterna blu carico di tritolo entra nella base Maestrale in Iraq, presidiata da esercito e carabinieri, e da allora l'Italia riscoprì il costo della guerra sulla propria pelle. Nassiriya, la città che dal 12 novembre 2003 lega indissolubilmente il suo nome al nostro Paese, è il luogo dell'attentato in cui morirono ventotto persone, tra cui diciassette militari, un cooperatore internazionale e un regista italiani.
Oggi i loro familiari lanciano un appello alle istituzioni affinché si conceda alla memoria dei caduti di Nassiriya la medaglia d'oro al valor militare. "È stata la più grande strage di militari italiani dal dopoguerra e in questa occasione ci saremmo aspettati una sensibilità diversa per quello che mio padre e gli altri hanno fatto per lo Stato, decidendo di rimanere in Iraq nonostante l'alto rischio a cui erano esposti, scelta che hanno pagato con la vita", dice Marco Intravaia, figlio del vicebrigadiere Domenico, una delle vittime, il quale lancia - anche a nome dei familiari degli altri caduti - un appello al presidente della Repubblica Mattarella, alla premier Meloni e al ministro della Difesa Crosetto affinché venga assegnata l'onorificenza.
Da tempo lo scheletro di cemento della base Maestrale, i resti di quella struttura dopo la deflagrazione, sono stati demoliti e sostituiti con degli uffici iracheni, ma "nessun simbolo o lapide in Iraq ricorda quel drammatico evento. C'è soltanto una targa nell'ambasciata italiana", spiega Marco Intravaia, palermitano di 36 anni e parlamentare regionale in Sicilia, il quale aggiunge: "Domenica prossima io e gli altri familiari saremo a Roma per le celebrazioni, ma ci saremmo aspettati dal ministero della Difesa un evento diverso per il ventennale, che invece è stato quasi dimenticato o sottovalutato". Poi le sue amare riflessioni personali: "La medaglia d'oro a questi diciassette militari italiani dell'Arma e dell'Esercito che parteciparono alla missione in Iraq denominata Antica Babilonia non è mai arrivata a causa di continue rivalità interne. Anche il fatto di aver istituito in questa stessa data la giornata del ricordo da estendere a tutti i caduti, per quanto i morti abbiano sempre pari dignità, non può e non deve rischiare di lasciare nel dimenticatoio una pagina di storia del nostro Paese".
Intravaia ricorda anche quei momenti che hanno cambiato la sua vita: "Avevo quasi 16 anni ed ero al liceo a Monreale quando alla mia compagna di banco arrivò sul cellulare un sms flash dei tg che parlava di un attentato al contingente italiano in Iraq. Ebbi un presentimento, chiamai a casa e mi insospettii, poi quando vennero i carabinieri ebbi la conferma. Dopo quel trauma mi ammalai di anoressia ma per fortuna riuscii a riprendermi, per dare sostegno alla mia famiglia. Però ricordo ancora con orgoglio i funerali di Stato che si tennero a Roma, con quel fiume interminabile di persone che passavano davanti alle bare, fermandosi anche soltanto per recitare una preghiera".
L'attentato sollevò diversi dubbi sulla gestione della sicurezza da parte italiana: i due uomini a bordo dell'autocisterna riuscirono a forzare l'entrata della base, presidiata dai carabinieri, facendo esplodere una bomba e la deflagrazione, con un effetto domino, fece saltare in aria il deposito munizioni. "Assieme ai familiari delle altre vittime abbiamo condotto tante battaglie affinché lo Stato non dimenticasse, lottando anche in sede giudiziaria: l'allora generale Stano esercito, Stano, è stato condannato in Cassazione per non aver attivato tutte le procedure di sicurezza che avrebbero ridotto l'entità della strage. Inoltre i warning dei servizi segreti erano stati ignorati". Oggi che le informazioni sui conflitti internazionali dominano la vita quotidiana di tutti - dall'Ucraina al Medioriente - Intravaia e gli altri familiari sperano che non si perda il senso di quello choc che vent'anni fa attraversò il Paese.
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