(di Paolo Petroni)
Anche questa volta Valerio Aprea, per
l'apertura di stagione del Teatro India, dove si replica sino al
27 ottobre e poi in tournée ''Il giorno in cui mio padre mi ha
insegnato a andare in bicicletta'', racconto di Sandro
Bonvissuto, ha scelto di presentarsi al pubblico e giocare senza
rete, ovvero senza un regista, senza scenografie, senza un testo
drammaturgicamente concepito, senza nemmeno filmati come è oggi
di moda, ma da solo, in rapporto diretto con gli spettatori,
protetto solo da un leggio, che potrebbe essere un limite e
diventa invece strumento per un lavoro fatto col bulino,
un'incisione del e sul testo, per farne risaltare i personaggi,
con tutti i loro chiaroscuri, e le sorprese della scrittura.
Dopo il tanto esercizio sui racconti di Mattia Torre ha
scelto un testo diverso ma egualmente scritto con una sapienza
espositiva che ne permette la teatralizzazione a una voce,
perché insiste su più piani, parla di sentimenti, ma lo fa
raccontando vita e azione, sviluppando una narrazione in prima
persona che ha gli occhi, il sentire di un bambino di cinque
anni, ma nel riviverlo di un adulto. Attorno gli crea una serie
di figure ben caratterizzate, con qualche riflessione, come
quella sul tempo o la polvere, tra cui a sorpresa mostra un
rapporto meno banale di quel che potrebbe sembrare. Una storia
di disagio e delusione che procede in discesa e poi risale
improvvisamente alla fine con quello che, pur se previsto,
risulta un colpo di scena, con la scoperta di ''a cosa serve un
padre, che me lo chiedevo da sempre''. La scrittura è infatti
sentimentale ma senza retorica, grazie a un gioco di attenzione
comica al paradossale, al punto di vista infantile, tra stupori
e speranze e delusioni, ma senza che il protagonista si arrenda
mai davvero al potere dell'amico più grande, sei anni, e
nonostante gli interventi puntuali di una ragazzina. ''E' che da
piccoli, qualsiasi cosa succeda si resta amici: gli amici sono
quelli che ti ritrovi lì attorno, come pesci in un acquario, poi
da grande invece te li scegli, e non si sa se è meglio''
(citazione a memoria).
Una lettura comunque, che si fa viva, che ti fa vedere quel
che racconta, ma senza identificazione dell'attore col
personaggio, che al massimo semmai è l'adulto che ricorda e sa
coinvolgerti nella sua memoria. Aprea ci riesce benissimo,
attraverso ovviamente le espressioni del viso (e fa anche, come
da testo, ''un faccia da mucca al pascolo'') molto recitando con
braccia e mani, ma con una sua misura espressiva, senza enfasi,
incidendo con i gesti il detto, che vive ovviamente poi delle
intonazioni, del variare di intensità, di scatti, di
rallentamenti e accelerazioni fino all'esultanza finale, agli
applausi, al suo riapparire in scena per i ringraziamenti
pedalando su una bicicletta.
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