RAVENNA, 20 GEN - Dopo la recente Trilogia d'Autunno dedicata a Monteverdi e Purcell, ma anche il Tamerlano di Vivaldi dell'anno precedente, le proposte di opera barocca proseguono con sempre maggiore successo al Teatro Alighieri di Ravenna: è il caso del Giulio Cesare di Haendel messo in scena nel weekend appena passato e accolto da consensi unanimi in una sala sempre esaurita.
Un fenomeno ormai contagioso, quello del barocco: si pensi all'Orontea di Antonio Cesti data alla Scala lo scorso settembre o allo stesso Vivaldi divenuto filo conduttore delle stagioni d'opera ferraresi degli ultimi anni. Senza dimenticare che quella ravennate è una coproduzione allargata che nelle prossime settimane verrà presentata ai pubblici di Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Lucca e Bolzano.
Spettacolo sontuoso ed elegante realizzato da Chiara Muti, regista, e Alessandro Camera, scenografo, anche se debitore a quel grande maestro del barocco che da almeno 50 anni è Pier Luigi Pizzi e, nelle scene, all'argentino Hugo De Ana i cui spettacoli sono caratterizzati spesso da parti di corpo umano. Il palcoscenico dell'Alighieri è stato dominato, infatti, da un'enorme testa (quella mozzata di Pompeo?) che si scomponeva moltiplicando attraverso un gioco di specchi parti dell'azione. E poi come non notare il mare dichiaratamente finto (tecnici a vista), fatto di teli e di luci, che a tanti ha ricordato quelli evocati da Federico Fellini nei suoi capolavori. E ancora, la maschera/testa d'asino omaggio allo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate. Rappresentazione assai gradevole, "dalla dimensione simbolico evocativa", secondo la stessa regista.
La parte musicale ha avuto in Ottavio Dantone e nella sua Accademia Bizantina la punta d'eccellenza dello spettacolo: impossibile non citare almeno Gregorio Carraro e Daniele Bolzonella straordinari e applauditissimi flautino e corno, e naturalmente la guida vivace, a tratti solare, dello stesso Dantone. Per il cast, Haendel ha richiesto ben otto cantanti, quattro dei quali controtenori, una tessitura che negli ultimi anni sembra avere soppiantato quella contraltile che a sua volta aveva sostituita, ma per ragioni più ovvie, quella dei castrati. Raffaele Pe, nel ruolo del titolo, ha faticato un po' all'inizio ma poi ha delineato un Giulio Cesare di buona fattura. Svettante anche il Sesto di Federico Fiorio, e il Tolomeo, fratello e rivale di Cleopatra per il trono d'Egitto, di Filippo Mineccia.
Ma le voci che più di tutte hanno raccolto consensi sono state quelle "naturali" del soprano Marie Lys (straordinaria Cleopatra, anche scenicamente, sua l'aria più celebre dell'opera, Piangerò la sorte mia) e del basso Davide Giangregorio magnifico Achilla cui Chiara Muti ha chiesto una recitazione a tratti un tantino spinta nei fastidiosi e insistenti corteggiamenti a Cornelia, un'altrettanto straordinaria Delphine Galou.
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