(di Chiara Venuto)
Campi immensi di fili gialli, i cui fiori secchi si muovono e diventano forme confuse, annodandosi all'orizzonte. È questa l'immagine che si apre dai finestrini della macchina lungo la statale 131, quella che taglia la Sardegna in verticale, anzi, in obliquo, attraversando quella fetta meridionale di isola che è forse un'isola a sé.
Mentre il nord della Sardegna è ormai luogo di villeggiatura di tanti, il sud conserva bellezze che non sono 'per tutti', rimangono dunque autentiche e vanno visitate con delicatezza.
Un itinerario di questo tipo non può che cominciare a Cagliari, nei suoi quattro quartieri storici che ancora combattono per mantenere la propria identità mentre le case cominciano a riempirsi di turisti. Perfetto punto di partenza è l'imponente Bastione di Saint Remy, sotto il quale si può fare una colazione dai sapori antichi, in uno degli epici bar della zona (frequentati ai tempi d'oro da personalità come Deledda, Gramsci e D.H. Lawrence). Poi, basta un attimo per infilarsi tra i vicoli e arrivare fino al Convento dei domenicani. Entrando nel chiostro gotico-catalano, ci si ritrova in una chiesa silenziosa. Qui la vera fortuna è essere interrotti dal rumore delle campane che non indica l'ora né chiama a messa, ma è la suoneria di padre Alberto, la guida ideale.
Quattro passi conducono fino al Centro comunale d'arte e cultura Exma', ex mattatoio gestito da Orientare e ora adibito a spazio per eventi e sede di Radio X. Ma presto è ora di andare al duomo, uno dei posti che meglio rappresentano le tante anime dell'isola: costruito dai pisani nel Duecento, fu rinnovato secondo i canoni barocchi e negli anni '30 la facciata divenne neoromanica. Se, usciti dal portone della cattedrale, lo sguardo volge immediatamente al mare, risalendo sulla destra si raggiunge la Cittadella dei Musei, che sorge dove una volta c'era il regio arsenale. Oltre a ospitare il Museo archeologico nazionale (e i suoi unici bronzetti nuragici), ci sono la Pinacoteca nazionale, una Collezione di cere anatomiche, un museo etnografico e, infine, un pezzo di Oriente: il Museo d'arte siamese, che tra lance, ventagli e ceramiche trasporta altrove il visitatore.
Subito fuori c'è un affaccio sullo stagno di Molentargius e le ex saline di Stato, in varie tonalità di rosa per i microrganismi che le abitano. In quest'area ogni anno arrivano centinaia di fenicotteri che coprono completamente l'acqua. Da non perdere anche la Galleria comunale (dov'è in mostra anche 'La madre dell'ucciso' di Francesco Ciusa, scultura da brividi) e il Castello di San Michele, bel punto panoramico.
Per capire al meglio il senso dell'essere sardi bisogna però andare verso l'entroterra. Ad Allai, paesino nell'oristanese a un'ora e mezza da Cagliari, basta vedere cosa c'è scritto sul municipio per capire che qui il sardo è vivo: "Su comunu", si legge. Il sindaco Antonio Pili, un chiacchierone innamorato dei suoi luoghi, ricorda che 'Allai' ha l'accento sulla prima sillaba e che il nome significa "Casa di Dio". In realtà sull'etimologia ci sono varie interpretazioni, ma vedendo lui e la sua passione è difficile immaginarle. Il primo cittadino snocciola racconti, spiega che qui tutti e 344 si conoscono e che "immaginare la Sardegna senza comunità è come pensarla senza pecore". Consiglia il museo CiMA, dove una delle guide, Mara Cossu, mostra reperti trovati per caso, perché qui non c'è mai stata una campagna di scavo. Con la linea del tempo racconta - tra le altre cose - delle domus de janas, 'case delle fate', posti magici che è sempre bene visitare con rispetto. Dietro la mostra si apre un borghetto da favola, chiaro, e la sua piazza con un tavolo a uso libero dove mangiare insieme, giocare a carte, rilassarsi una domenica.
Un salto alla casa sull'albero, la prima pubblica in Italia, e via verso Samugheo, accompagnati dalle pale eoliche che si stagliano come giganti della montagna. In certi punti la terra accanto alla macchina diventa rossa e le pale di fico d'india crescono come alberi. Il paese si apre agli occhi come un posto diverso, e per capirlo bisogna entrare al museo dell'arte tessile Murats. Qui manufatti antichi sono associati a quelli di oggi, alcuni dei quali in vendita. Tra abiti tradizionali, tappeti la cui produzione richiede settimane e bisacce, ci sono anche rarissimi tapinos de mortu sui quali probabilmente veniva adagiato il defunto per la veglia funebre.
Quella del tessile è una cultura che continua ancora, e porta questo pezzo di Sardegna in giro per il mondo. Lo testimonia Mariantonia Urru, geniale matriarca oggi ottantenne che tesse da quando aveva 14 anni. Non un record, per un posto dove in ogni famiglia c'è un telaio. Nel 1981, però, fu lei a fondare l'omonima azienda che oggi, anche grazie al passaggio di consegne ai quattro figli (tutti maschi), ha collaborazioni con i più grandi designer del mondo. "Io mi son sempre divertita - sorride - non mi piace stare ferma", e continua ad aiutare le ragazze che lavorano per lei: "sono ormai tutte di famiglia", afferma, ma è evidente che con il suo piglio e, perché no, un pizzico d'ironia, fa stare tutti sull'attenti. Il suo sguardo, per nulla anziano, è rivolto al futuro, e ricorda che a questi posti non è stato donato nulla, che i sardi hanno dovuto fare tutto da soli. A guardare le sue trame, visitando certe mostre, assaggiando i formaggi, la conclusione può essere una sola: hanno fatto bene.
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