L’analisi del Dna antico di 64 bambini Maya sacrificati tra il VII e il XII secolo d.C. ha raccontato una storia di uccisioni rituali le cui vittime erano molto spesso coppie di gemelli maschi o comunque di individui strettamente imparentati: la scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, smentisce così la leggenda sulla preferenza per le fanciulle come vittime dei sacrifici Maya. Lo studio, condotto nell’antica città di Chichén Itzá, nel cuore della penisola messicana dello Yucatan, e guidato dal tedesco Max Planck Institute per l'Antropologia evolutiva di Lipsia e dall’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia messicano, ha inoltre permesso di fare luce sull’eredità genetica lasciata dalle devastanti epidemie portate dai coloni europei e tuttora presente nelle popolazioni.
I ricercatori, guidati da Rodrigo Barquera del Max Planck e Oana Del Castillo-Chávez dell’Inah, hanno condotto un’analisi genetica sui resti di 64 bambini sepolti ritualmente in una camera sotterranea, che si sono rivelati essere inaspettatamente tutti maschi. Ulteriori analisi hanno poi evidenziato che i bambini provenivano dalle popolazioni locali e c’erano molte coppie di individui strettamente imparentati tra loro, comprese almeno due coppie di gemelli.
Nel loro insieme, i risultati indicano che i figli maschi imparentati venivano probabilmente selezionati in coppia per le attività rituali, una conclusione avvalorata dal fatto che i gemelli occupano un posto speciale nelle storie delle origini e nella vita spirituale degli antichi Maya. “I resoconti dell’inizio del XX secolo hanno reso popolari false storie spaventose di giovani donne e ragazze sacrificate in questo luogo”, dice Christina Warinner del Max Planck, co-autrice dello studio. “Questo studio capovolge la storia e rivela le profonde connessioni tra il sacrificio rituale e i cicli di morte e rinascita umana descritti nei testi sacri dei Maya”.
Le informazioni genetiche dettagliate ottenute a Chichén Itzá hanno permesso ai ricercatori di indagare anche le conseguenze sulle popolazioni indigene delle epidemie che durante il XVI secolo, in Messico, falcidiarono fino al 90% degli individui. Tra le più gravi c’è senza dubbio l’epidemia del 1545, della quale è stata recentemente identificata la causa nel batterio Salmonella: infatti, gli autori dello studio hanno trovato prove di una selezione di geni legati alla risposta immunitaria, e in particolare di varianti protettive contro l’infezione da Salmonella. “I Maya di oggi – afferma Barquera – portano le cicatrici genetiche di queste epidemie dell’era coloniale”.
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