"L'uso di un linguaggio errato, non rappresentativo e non rispettoso di tutte le persone, contribuisce alla diffusione di stereotipi e alimenta un immaginario negativo verso persone, gruppi o intere comunità.
Cambiare quelle narrazioni aiuta a combattere le discriminazioni". Si aprono con questa riflessione le "Linee guida per il linguaggio inclusivo" basate sul confronto con voci esperte e persone delle comunità sottorappresentate, rese pubbliche oggi dalla Fondazione Diversity.
"Chiunque - spiega Francesca Vecchioni, presidente di Fondazione Diversity - pensa di sapere quali parole siano offensive, quelle che non andrebbero mai usate. Più difficile è capire quali siano le parole migliori da usare, quelle scelte dalle comunità di riferimento per descrivere se stesse su tematiche come l'etnia, la religione, l'Lgbtq+, il genere, l'aspetto fisico, la disabilità. Chiunque sa, anche, che denigrare è sbagliato, ma molte persone lo fanno inconsapevolmente, usando magari un linguaggio pietistico, paternalistico o eroico, che contribuisce ad alimentare stereotipi e discriminazioni".
Per fare degli esempi, l'espressione "di colore", ormai obsoleta, rimanda a uno sguardo biancocentrico, così come non si parla più di persone non udenti o non vedenti ma di persone sorde o cieche, come richiesto dalle rispettive comunità di riferimento. La parola transessuale, che richiama a un'idea di transizione medica, è superata: meglio parlare di persone transgender (o trans) perché la transizione è un processo diverso da persona a persona. L'uso della parola "diversamente abile" è fortemente paternalistico: meglio "persona con disabilità".
E ancora, il termine "extracomunitario/a" è fortemente discriminatorio, così come il Gay Pride non esiste (più), esiste solo il Pride, un momento di orgoglio e rivendicazione per tutta la comunità Lgbtq+.
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