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Un tempo tempio dell’amore proibito e consumato in fretta, ora un'oasi di recupero e di sostegno, il K11 è risorto dalle sue ceneri diventando un punto di riferimento per persone in difficoltà
Di quella che era la precedente attività, il K11 possiede ancora un passaggio nascosto, "il cunicolo", come viene chiamato dagli attuali frequentatori della struttura. Lo utilizzavano i clienti per entrare senza farsi notare, nascosti da occhi indiscreti e dal viavai frenetico della trafficata strada che collega Torino a Pianezza. Il covid e le restrizioni imposte dalla pandemia hanno causato il fallimento delle vecchia struttura che però è rinata a nuova vita. Da settembre 2023 infatti l’edificio giallo è diventato una casa rifugio per detenuti ed ex detenuti, gestito dalla Brothers Keeper Ministry, che da circa vent’anni si occupa di volontariato penitenziario. Sono stati gli stessi beneficiari dei progetti dell’associazione evangelica a rimettere in piedi l’ex hotel con piccoli lavori di manutenzione per renderlo accogliente per detenuti ed ex detenuti che hanno trovato qui una casa, fuori dal carcere. L'edificio ospita anche alcuni familiari dei detenuti, che venendo da lontano trovano un posto letto a poca distanza dalla casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Salvatore Barone e sua moglie Daniela sono gli autori di questa rinascita, un punto di riferimento per tante persone che si rivolgono alla Brothers Keeper Ministry per le più svariate questioni, dal semplice ascolto all’accoglienza, fino alla ricerca di un lavoro per realizzare un completo reinserimento nella società. Il referente dell'ex K11 è Marco, che vive in una stanza verde con un grosso quadro di New York ricavata accanto a quella che un tempo era la reception dell’albergo. C’è ancora il vetro che separa il bancone, il telefono per le chiamate dirette nelle stanze e perfino il campanello per il concierge. "Io sono stato aiutato dall'associazione, quando ho avuto bisogno - racconta Marco -, quell'aiuto è stato fondamentale per me. Ora tocca a me aiutare gli altri, dedicando tempo per sostenere gli ospiti".
Le persone accolte nelle strutture della Brothers Keeper hanno età diverse, ma sono accomunate dall'avere un passato dietro le sbarre e la speranza di un futuro. Alcuni sono usciti dal carcere da poche settimane, altri invece hanno ottenuto l’affidamento ai servizi sociali, altri ancora hanno scontato la propria pena e ora sono liberi. "Avevo paura che una volta fuori il passato sarebbe tornato a chiedermi il conto - confida una delle donne accolte -. Io volevo uscire dal carcere senza dovermi continuamente guardare le spalle. Qua dentro finalmente so che posso guardare avanti". È sufficiente trascorrere alcune ore nelle case rifugio per sentirsi parte di una comunità stretta, fatta di relazioni solide, dove il sostegno reciproco permette di superare i momenti di sconforto. "Non mancano le difficoltà, soprattutto la condivisione di spazi con altre persone che talvolta può diventare soffocante, specie per chi ha trascorso molti anni in ambienti angusti come le celle. Ma sono piccolezze in confronto all’opportunità di tornare a vivere", dice un altro ospite.
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"Dentro siamo trattati come cani nonostante la buona volontà di alcuni operatori che non basta di fronte al sovraffollamento degli ambienti e al poco riguardo verso le persone psichiatriche o malate", dice Paola, due condanne, in totale dieci anni dietro le sbarre, una prima volta da giovanissima, poi in età più adulta e da malata. Condizione, quest’ultima, che le ha reso il periodo di detenzione ancora più traumatizzante. Paola definisce disumane le condizioni di vita all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino e vorrebbe che la politica ripensasse il modello carcerario, offrendo l’adeguato supporto a chi vive una condizione di disagio. "Solo così il carcere può essere uno strumento rieducativo e non un tentativo di cancellare le persone dalla società", conclude.
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