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Italia maglia nera in Europa per la resistenza ai super batteri
C’è una questione antica in Italia che ogni anno causa la morte di 15 mila persone, una popolazione all’incirca pari a quella di Alba Adriatica. È l’antibiotico resistenza, un tema ostico a partire dal nome
L'antibiotico resistenza è causata da numerosi batteri, alcuni con nomi difficili e provoca una trentina di malattie diverse. Eppure è una epidemia silenziosa per la cui diffusione l’Italia è seconda in Europa, dietro alla Grecia. La causa, invece, è semplice da spiegare: un uso eccessivo o non corretto di antibiotici.
Questo favorisce l’insorgenza di ceppi batterici resistenti ai farmaci, cioè super batteri che non rispondono alle cure e possono portare alla morte. Intanto partiamo da due curiosi dati: nel nostro Paese si registra il più alto uso di antibiotici in Europa e da noi non esiste un obbligo di comunicazione delle infezioni antibiotico resistenti, nemmeno da parte degli ospedali dove si verifica il 65% dei casi di queste infezioni.
In tutta Europa muoiono 100 persone al giorno, praticamente le vittime di influenza, Aids e tubercolosi messe insieme. Non è semplice raccontare l’epidemia dei super batteri perché non abbiamo l’immagine al microscopio di un corpuscolo “colpevole”, di un organismo con le corone da far disegnare ai bambini, come accaduto per il virus del Covid-19. È un problema che riguarda medici, aziende farmaceutiche e autorità sanitarie.
Le cause dell’antibiotico resistenza sono molteplici e per questo abbiamo deciso di affrontare il problema a spicchi. Partiamo dal rapporto medico-paziente. In questo contesto ad aver contribuito a creare la cultura di uso massiccio di questi farmaci è stata una perdurante “sbagliata prescrizione di terapia” ovvero “una tendenza a prescrivere gli antibiotici come fossero antidolorifici - spiega Tacconelli - . In sostanza, con la stessa facilità con cui quando abbiamo una cefalea prendiamo un antipiretico o un antidolorifico,c’è una tendenza a prescrivere, per esempio per un mal di gola, immediatamente un antibiotico”. Questo comportamento secondo Tacconelli è dovuto “ad una insicurezza del medico e, a volte, ad una richiesta molto pressante del paziente”.
“L’insicurezza del medico dipende dal fatto che non ha abbastanza competenze di prescrizione antibiotica per poter fare una prescrizione precisa e quando si ha paura si tende a prescrivere di più perché è come se, dal punto di vista medico legale, ci si sentisse più rassicurati”. Allo stesso tempo anche il paziente si sente più rassicurato davanti alla prescrizione di un antibiotico rispetto all’indicazione, proveniente dal medico, spesso dal medico di medicina generale: “La teniamo in osservazione per due giorni”. Questa frase, afferma Tacconelli “al paziente non piace”.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA
Esiste poi un altro problema relativo alla sfera della formazione del medico che se non riceve una “educazione” all’uso degli antibiotici durante gli anni di studio all’università o nelle scuole di specializzazione, questa “educazione” la riceverà da canali che “possono non essere indipendenti”, fa sapere Tacconelli aggiungendo che “in Italia ci si può laureare senza aver fatto un esame specifico di terapia antibiotica”.
Siamo in una situazione per cui, “il giorno dopo aver conseguito la laurea in Medicina, un amico mi chiede un’ampicillina per il mal di testa o per il mal di gola e, senza nemmeno sapere qual è il dosaggio preciso, lo prescrivo”.
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Da quanto abbiamo appreso fin qui, è piuttosto chiaro che il primo ambito di intervento per arginare la quantità di decessi causata dall’antibiotico resistenza è quello della formazione dei medici. In assenza di un esame specifico sulla terapia antibiotica – come avverte Tacconelli – è molto probabile che nel corso della vita e della carriera di un medico, tali nozioni arrivino da altre fonti non istituzionali. Tali fonti si manifestano nei cosiddetti eventi educazionali organizzati dalle case farmaceutiche, cioè appuntamenti nei quali si parla di una terapia, di un farmaco e a farlo molto spesso sono proprio dei medici, scelti dalle aziende farmaceutiche organizzatrici e per questo remunerati.
A questo punto parte una ulteriore diramazione della questione: come sono inquadrati i medici relatori degli eventi educazionali? Può essere questa la prima occasione nella quale un medico si avvicina alla conoscenza della terapia antibiotica o dovrebbe ricevere, prima di tutto, una formazione indipendente?
Negli anni, gli eventi educazionali delle case farmaceutiche si sono un po’ trasformati. Continuano ad avere come relatori dei medici pagati per le loro relazioni ma vengono ad organizzarli sono società terze, spesso società per eventi non direttamente collegate alle case farmaceutiche. Anche in questo caso agli eventi partecipano come relatori dei medici, anche in questo caso pagati. E in Italia non esiste una regolamentazione chiara su questo argomento. Non è in discussione il fatto che un medico lavori per una casa farmaceutica ci tiene a sottolineare Tacconelli, quello che è importante è che ciò venga correttamente comunicato ai partecipanti e soprattutto che non sia l'unica fonte di conoscenza in tema di terapia antibiotica per i medici.
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Fuori dall’Italia, secondo l’esperienza della dottoressa Tacconelli, in caso di eventi dell’Oms e dell’Ecdc (il centro europeo per le malattie infettive) “il conflitto di interesse viene valutato in maniera quasi maniacale. I Europa è impossibile sedersi ad un tavolo in cui prescrivo o dò indicazioni di terapia antibiotica con un conflitto di interessi anche minimo. In Italia invece chi parla del conflitto di interessi è molto spesso considerato in maniera antipatica dagli stessi colleghi, come se si mettesse in dubbio l’onestà del medico ma non è così”.
“Se lei analizza gli ultimi cento meeting di una industria farmaceutica – aggiunge – noterà che c’è una tendenza a chiamare sempre le stesse persone”.
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“Se io riuscissi a ridurre le infezioni ospedaliere da antibiotico resistenza, significherebbe salvare migliaia e migliaia di persone. Si può fare e non è solo una questione di obbligo, è anche una questione di controlli. Se non funziona si chiude. E la risposta potrebbe essere: se chiudo gli ospedali faccio un danno enorme. Ma se io ho un ospedale aperto dove ho il miglior chirurgo di questo mondo e il paziente muore dopo una chirugia perfetta, per una infezione che non risponde agli antibiotici ma non è meglio chiuderlo quel reparto?”
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